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Michael Rosenblum e gli “one man crew”: nascita e diffusione del videogiornalismo

Le origini

Era il 1988 quando Michael Rosenblum, un giovane giornalista e fotoroporter dell’emittente statunitense CBS, decise di abbandonare il canale, deluso dalla scarsa rilevanza data al suo ruolo e alle sue fotografie, e di partire verso le zone di guerra in Medioriente con una piccola telecamera al tempo della prima Intifada (1987-1993). In quel momento ebbe inizio un lungo viaggio che continua ancora oggi, quello del videogiornalismo. Per la prima volta, Rosenblum si trovò a dover registrare in prima persona quanto gli accadeva attorno per poi assemblare le immagini raccolte nel modo a lui più congeniale. In questo modo riuscì a riprendere direttamente ciò che desiderava e, con il lavoro di montaggio, dare maggior rilievo a ciò che per lui era più importante, eliminando ogni intermediario. Fino alla fine degli anni ’80, infatti, per realizzare servizi e inchieste, erano necessari diversi professionisti: cameraman, fonici, registi, produttori, responsabili del montaggio, solo per citarne alcuni. Ciascuna di queste figure aveva bisogno di tempo e naturalmente di uno stipendio per poter portare a termine il proprio lavoro.

La grande innovazione introdotta dal reporter newyorkese fu proprio quella di scavalcare la crew televisiva, creando un nuovo professionista in grado di riprendere, montare e presentare i contenuti da lui realizzati. Un cambio, di fatto, epocale che portò inoltre a una notevole riduzione di denaro e di tempo. Solo in questo modo, secondo Rosenblum, era possibile fare vero giornalismo, tutto il resto era solo spettacolo televisivo. L’attenzione del videogiornalista si spostò quindi sulle immagini e sul loro assemblaggio finale, che andarono a sostituirsi al testo dell’articolo giornalistico tradizionale e diventarono il mezzo per catturare l’attenzione dello spettatore, sfruttando al massimo le potenzialità della televisione. La nuova figura del videoreporter concepita da Rosenblum andò a inserirsi in un settore del giornalismo che stava vivendo un momento di crisi, ossia quello delle inchieste e dei reportage sul campo. All’epoca, i network erano sempre meno propensi a finanziare costose produzioni per la realizzazione di grandi servizi di approfondimento e piano piano preferirono rivolgersi a questi nuovi professionisti acquistando a un prezzo accessibile i contenuti da loro già confezionati.

Il percorso che portò il videogiornalismo a ritagliarsi un ruolo importante all’interno del medium per il quale era stato concepito fu comunque lungo e tortuoso. Agli esordi, le uniche emittenti televisive disposte a prendere in considerazione la novità furono quelle private. Le televisioni pubbliche si dimostrarono infatti diffidenti, tanto che dovette passare più di un decennio per vedere i primi videogiornalisti fare il loro ingresso nelle redazioni dei grandi broadcaster nazionali.

 

Diffusione


Inizialmente, Rosenblum si dedicò alla creazione di servizi televisivi da vendere alle emittenti e per farlo fondò un’agenzia, la Video News International. Fin da subito, la nuova forma di fare giornalismo ebbe grande attrattiva anche Oltreoceano, in particolare nell’Europa del Nord. Chiamato a Bergen, in Norvegia, per creare insieme a un imprenditore locale un nuovo canale di news per l’emittente privata via cavo TV3, Rosenblum addestrò 30 giovani reporter nell’uso delle videocamere e li istruì nelle tecniche di montaggio. Prese così forma la prima redazione televisiva composta esclusivamente da videogiornalisti. In poco tempo, la novità venne introdotta anche in Svezia e in Danimarca, sempre per TV3. L’emittente trasmette tuttora nei paesi del Nord Europa e i contenuti videogiornalistici sono ancora parte integrante della sua programmazione.

Nel 1990, intanto, nasceva New York 1, un nuovo canale all news via cavo, il cui direttore, Paul Sagan, restò affascinato dal lavoro di Rosenblum e lo incaricò di insegnare le tecniche del videogiornalismo a tutti i componenti della nuova redazione. Ancora oggi, i giornalisti di NY1 solcano le strade della ‘Grande Mela’ handycam alla mano, pronti a realizzare servizi da mandare poi in onda.
Oltre a quella del canale newyorkese, Rosenblum fu l’artefice di una serie di rivoluzioni giornalistiche interne ad altre stazioni televisive statunitensi di grande importanza. La sua influenza contribuì, ad esempio, a portare il videogiornalismo anche nella redazione di The Voice of America, un’agenzia governativa di broadcasting. Inoltre, l’ex fotoreporter della CBS diede un notevole contributo allo sviluppo di Current TV, l’emittente fondata nel 2005 dall’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, che volle espressamente il giornalista al suo fianco per istruire e organizzare la redazione.

A Rosenblum si devono anche diverse collaborazioni con televisioni di tutto il mondo, quali lo Sri Lanka, l’Eritrea, il Giappone e la Germania.
Ed è proprio in Germania che, nel 1994, il canale bavarese Bayerischer Rundfunk divenne la prima emittente pubblica ad assumere dei videogiornalisti, mentre, nello stesso anno, la nuova pratica raggiunse anche il Regno Unito, grazie al lancio di Channel One Television, stazione televisiva dove trovarono posto videoreporter inglesi. Il canale venne chiuso nel 2011 ma contribuì in maniera decisiva alla diffusione del videogiornalismo nelle isole britanniche. Nel 2001 la BBC, il più importante broadcaster d’Oltremanica, iniziò un programma che prevedeva il passaggio al videogiornalismo di tutte le sue redazioni locali sparse sul territorio. Quattro anni più tardi, l’emittente contava più di 600 videogiornalisti nel suo organico. La società ha dimostrato di restare al passo con i tempi e negli ultimi anni ha aperto le porte delle sue redazioni anche ai ‘mojoer’, i professionisti del Mobile journalism, che affidano ogni parte del loro lavoro esclusivamente a dispositivi mobili, come smartphone e tablet.
Altre redazioni di videogiornalisti si diffusero alla fine degli anni ‘90 anche in Canada e Australia.

In Italia il riconoscimento della nuova professione stenta tuttora a decollare pur allargandosi a macchia d’olio soprattutto fra gli under 30: da una parte i grandi network restano convinti che una troupe tradizionale possa garantire una qualità inarrivabile per una “one man crew” (un professionista “tuttofare”), dall’altra è la stessa categoria dei giornalisti che dimostra incapacità nel voler evolvere allargando gli orizzonti delle proprie competenze. (continua)

 

di Davide Dalla Pria (1 di 2)

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