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L’invasione del fast fashion nel mercato del vintage: la minaccia invisibile

Cresce la sfida per i selezionatori: nei magazzini dell’usato e nei mercatini delle pulci aumentano i capi bucati e irreparabili provenienti dalla moda ‘veloce’

Qualità, identità e attualità sono i criteri chiave che permettono a un capo di fare il suo ingresso sugli scaffali dei negozi second-hand. Ma per i selezionatori, professionisti che si occupano di valutare attentamente gli articoli da mettere in vendita, sta diventando sempre più difficile ritrovare tali standard.
Se da un lato è proprio la qualità, data da materiali più resistenti e dettagli curati, a rendere il settore del vintage elitario e non demodé, dall’altro i selezionatori constatano un aumento di capi bucati e irreparabili nei magazzini.

“Rispetto al 2015, anno in cui abbiamo aperto il nostro primo negozio a Milano, avvertiamo un cambiamento nella percezione della qualità che coinvolge anche i marchi più prestigiosi. Ciò riflette un cambiamento nella materia prima utilizzata nel processo produttivo. Se prima certi indumenti finivano nei bidoni gialli, ora in molti provano a rivederli. Nei mercatini delle pulci, per esempio, è arrivato tantissimo fast fashion” spiegano Massimo Milani, Ettore e Giorgia Dell’Orto, fondatori del negozio di abbigliamento vintage ‘Ambroeus Milano’. Il loro impegno diretto nel settore second-hand li rende particolarmente attenti a come l’evoluzione dei materiali e la crescente presenza del fast fashion influenzano il mercato e le scelte dei consumatori.

Fast Fashion e Vintage: due mondi opposti nel second-hand

Molti capi realizzati in periodi storici in cui i processi produttivi puntavano a una maggiore durevolezza hanno la possibilità di vivere fino a tre turni. Oggi, la moda veloce ed economica usa tessuti meno duraturi e più suscettibili ai danni nel tempo. Massimo sottolinea che questi articoli a causa della scarsa qualità finiscono per “autoeliminarsi” dopo un solo turno, rendendo difficile il loro riutilizzo nel mercato dell’usato. Acquistando prodotti in stock per rimetterli sul mercato, ci si trova davanti a un 90% di articoli in buono stato e un 10% irreparabile.

L’invasione della moda di massa, poco green e mancante del fascino e della resistenza dei pezzi vintage tradizionali, aumenta l’offerta di indumenti second-hand economici e accessibili. Introducendo però, capi progettati per durare poco e destinati a un consumo rapido e temporaneo, rischia di abbassare la qualità del mercato dell’usato e minare il valore del vero vintage.

“Dobbiamo considerare che in Italia il vintage ha affrontato un percorso lungo e complesso prima di affermarsi, ma già negli anni Sessanta a Londra era esploso il trend. Dunque, l’interesse verso il vintage non è una reazione al fast fashion. Sono due poli opposti sotto ogni punto di vista: etica del lavoro, location e condizioni di lavoro, reperibilità dei tessuti e processo produttivo, tempistiche e marketing, filiera di vendita, qualità e cliente” afferma Ettore Dell’Orto, mettendo in evidenza la chiara differenza tra i due settori. “Oltre alla qualità, l’altro criterio che distingue il vintage è proprio il cliente. È più riflessivo, sceglie il prodotto per la qualità, cerca l’unicità e considera la sostenibilità. Al contrario, il consumatore del fast fashion tende all’acquisto impulsivo” aggiunge Giorgia.

Che fine fanno i numerosi vestiti non adatti alla rivendita come beni di seconda mano?

Sebbene la presenza sempre più massiva del fast fashion nel mercato di seconda mano non rappresenti una minaccia diretta, a destare preoccupazione sono le pratiche di greenwashing delle grandi aziende del settore. Attraverso marketplace di abiti e accessori usati del loro marchio, promuovono la circolarità come parte della loro immagine sostenibile. Come commenta Giorgia, tali iniziative sono solo “una foglia di fico” per nascondere problematiche più gravi legate alla produzione, al consumo responsabile e all’etica del lavoro.

Tuttavia, vi sono aziende che si impegnano per una gestione sostenibile del fine vita dei capi. Per esempio, l’azienda Soex, specializzata nel riciclo di indumenti e materiali tessili, riutilizza i capi bucati e irrecuperabili, triturandoli e vendendoli come materiale isolante per ridurre la dispersione di calore o rumore nel settore dell’edilizia. In questo modo, anche i tessuti di scarto trovano una seconda vita come componenti isolanti, riducendo l’impatto ambientale dei rifiuti tessili.

Nicoletta Totaro

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